The Rolling Stones (Parte 2)

Raggiunto l’apice artistico con la quattro facciate di Exile On Main St., gli Stones attraversarono gli anni Settanta con una serie di dischi tutt’altro che memorabili, complici anche i problemi dei due leader: se Jagger era sempre più alle prese con il mondo dorato del jet-set, Richards doveva fare i conti con la sua dipendenza dall’eroina. Proprio lo scarso apporto di quest’ultimo contribuì a rendere Goats Head Soup (agosto 1973) un disco infinitamente meno riuscito del suo predecessore, nonostante la prima piazza raggiunta, sia nella classifica inglese che in quella americana. Il brano più famoso è sicuramente la lenta ballata “Angie”, che per molto tempo fu considerata come un’ode a Mary Angela Barnett, la prima moglie di David Bowie. La forma ballata produce comunque risultati relativamente più intriganti in “100 Years Ago”, “Coming Down Again” ma anche in “Winter”, quest’ultima scritta da Jagger insieme a Mick Taylor. Quanto al resto, gli Stones fanno gli Stones, ma senza esagerare, tanto che, anche quando si danno al loro amato blues-rock (si ascolti, ad esempio, “Dancing With Mr. D”), finiscono per suonare ammorbiditi. A conti fatti, a questo giro appaiono più convincenti quando si dilettano con le tinte funk di “Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker)”, il country-rock di “Silver Train” e gli echi psichedelici di “Can You Hear the Music”.

Poco più di un anno dopo, It’s Only Rock ‘n’ Roll (ottobre 1974) ribadì che agli Stones interessava ormai soprattutto divertirsi, votando la propria causa a un sano e robusto (ma poco creativo, ahinoi!) “rock’n’roll”. In questi nuovi solchi tutto scorre, dunque, liscio e manieristico, anche se il livello è sempre dignitoso, che si tratti di rock duro e puro (“If You Can’t Rock Me”, la title-track, “Dance Little Sister”), rhythm and blues maleducato (“Ain’t Too Proud To Be”, cover di un brano del 1966 dei Temptations), country-blues in forma di dolce ballata (“Till the Next Goodbye”), funk acido (“Fingerprint File”) o che ci si affidi ai voli lirico-elettrici della chitarra di Taylor (“Time Waits For No One”).

Prima del tour americano del 1975 (il primo da tre anni a quella parte), Mick Taylor (che, nonostante il suo grande talento, Jagger e Richards non avevano mai veramente riconosciuto come membro effettivo della band) decise di mollare. Al suo posto, venne ingaggiato Ron Wood, che aveva alle spalle esperienze con il Jeff Beck Group e i Faces. Meno tecnico ma più “appariscente” di Taylor, Wood diede il suo primo contributo in studio durante le registrazioni di Black And Blue, disco che venne pubblicato nell’aprile del 1976. Per questo nuovo lavoro, gli Stones tornarono con più consapevolezza alle loro radici, declinando però secondo la moda del momento, che vedeva il funk amoreggiare con la disco-music (“Hot Stuff”, “Hey Negrita”) e il reggae (“Cherry Oh Baby”, cover di un brano del 1971 di Eric Donaldson). Guidato dal singolo di successo “Fool To Cry” (una fin troppo svenevole ninna-nanna dedicata a Jane, la figlia di Jagger e Bianca Pérez-Mora Macías), il disco procede tra numeri rockeggianti (“Hand Of Fate”, “Crazy Mom”) e ballate d’ordinanza (“Memory Motel”, con Jagger e Richards a dividersi la parte vocale), prima di assaporare il jazz con “Melody”, “ispirata” dal pianista Billy Preston.

Selezionando registrazioni provenienti dal trionfale tour europeo, Love You Live (settembre 1977) si premurò di tenere caldi i cuori dei fan. Nel giugno del 1978, la band tornò in pista con un nuovo disco in studio: Some Girls. Nei due anni precedenti, guidato da band quali Ramones, Sex Pistols, Clash, Damned e via discorrendo, il punk aveva fatto tabula rasa di tutte quelle sovrastrutture che, nel corso degli anni, avevano finito per offuscare sempre più lo spirito primigenio del rock’n’roll. Gli Stones non osarono buttarsi a capofitto in quella mischia, preferendo invece continuare lungo un cammino fatto di energia rock (“When The Whip Comes Down”, “Lies”, “Respectable”, “Shattered”), tessiture funk (“Miss You”), echi Motown (“Beast Of Burden” e la cover di “Just My Imagination (Running Away with Me)” dei Temptations), trame blues-rock (la title-track) e spiragli country (“Far Away Eyes”), risultando comunque così incisivi da guadagnarsi nuovi adepti anche tra le frange più giovani degli aficionados del rock.

Dinanzi alla definitiva esplosione della disco-music, Jagger e Richards (quest’ultimo proveniente da un anno di disintossicazione, dopo aver rischiato la galera perché beccato dalla polizia canadese con ben trenta grammi di eroina!) non riuscirono a resistere e tirano fuori un Emotional Rescue (giugno 1980) il cui trittico di numeri ballabili (“Dance”, “Send It To Me”, la title-track) non rappresenta certo uno dei momenti più memorabili della loro carriera. Lontano dall’equilibrio del precedente lavoro (di cui, in ogni caso, confermerà il successo commerciale), Emotional Rescue è un disco che trova i suoi guizzi migliori nella solidità rock di “Summer Romance”, “Let Me Go” e “Where The Boys Go”, in quella “Down In The Hole” in cui il blues è veramente sinonimo di “afflizione” e in una “Indian Girl” che gettava luce sulle difficili condizioni degli indigeni dell’America latina e dei rifugiati cubani.

Con il sassofonista Sonny Rollins e il chitarrista Pete Townshend degli Who in veste di ospiti di lusso, il successivo Tattoo You (agosto 1981) continuò a far vendere paccate di dischi alle “pietre rotolanti”, per quanto la qualità della loro musica continuasse a essere particolarmente altalenante. Tattoo You si apre con uno dei loro brani più famosi di sempre, “Start Me Up”, la cui composizione risaliva al 1976, quando Richards aveva pescato dal cilindro uno dei suoi riff più memorabili. Il resto è solidissimo mestiere, tra numeri trascinanti e orecchiabili (“Hang Five”, “Little T&A”), gineprai di hard-blues, misoginia, lussuria e coretti femminili un po’ stupidi (“Slave”, con il sax di Rollins e Townshend ai cori), echi del rock’n’roll che fu (“Black Limousine”), languide ballate e appassionate love-song (“Worried About You”, “Tops”).

Pochi mesi dopo, gli Stones partirono per un nuovo tour mondiale, immortalato nel disco dal vivo Still Life (che sarà pubblicato nel giugno del 1982) e nel film, diretto da Hal Ashby, Let’s Spend The Night Together. Nel 1982, per celebrare i vent’anni di carriera, la band tornò a suonare in giro per l’Europa, toccando anche l’Italia (due date a Torino, l’11 e il 12 luglio, e una a Napoli, il 17 luglio). Si trattò di un tour memorabile, anche perché si vociferava potesse essere il loro ultimo e, quindi, gli spettatori accorsero in massa, col timore di non poter riuscire più, in futuro, a vedere dal vivo una delle band più famose del pianeta.

Con un potere contrattuale ormai enorme, alla fine del 1982 gli Stones firmarono un contratto di quattro dischi con la CBS per cinquanta milioni di dollari, fino a quel momento la cifra più alta mai incassata da una band.
In ogni caso, con la Atlantic c’era ancora da onorare il precedente contratto, per cui la band pubblicò Undercover (novembre 1983), disco in cui le sonorità sintetico-elettroniche e quelle più vicine alla new-wave emergono con prepotenza, prendendosi il campo fin dall’iniziale e funkeggiante “Undercover Of The Night”, riemergendo, qua e là, in mezzo a trame poliritmiche (“Too Much Blood”) o fascinazioni reggae (“Feel On Baby”), salvo lasciare il campo, dunque, a sonorità roots con la “bollente” “Tie You Up”, l’accattivante “Wanna Hold You”, il boogie-woogie di “She Was Hot” e il blues-rock stradaiolo di “It Must Be Hell”.

La doppia anima di Undercover fu la spia più evidente di una crisi nel rapporto tra Jagger (desideroso di stare sempre al passo con i tempi) e Richards (più propenso a restare con i piedi ben piantati nel terreno del blues-rock su cui la band aveva, fin dagli esordi, messo le radici). Fu così che, per staccare un po’ la spina con gli Stones, il primo fece uscire il suo esordio da solista (l’assolutamente prescindibile She’s The Boss, 1985), attirandosi numerose critiche da parte dei suoi compagni di viaggio, che non riuscivano a capire dove Jagger volesse andare a parare. Così, con quest’ultimo un attimino distratto dalla sue velleità soliste, il materiale del nuovo disco fu messo a punto per lo più da Richards, il quale si servì, come mai prima di allora, dell’aiuto del vecchio amico Ron Wood. Ne scaturì Dirty Works (marzo 1986), disco che, già a partire dallo stentoreo rock-blues della doppietta di apertura (“One Hit (To the Body)” / “Fight”), mirava a “riportare tutto a casa”. Tuttavia, le cose migliori di Dirty Works sono da rintracciare nelle cover di “Harlem Shuffle” (dal repertorio rhythm and blues di Bob & Earl) e di “Winsome”, un brano reggae del 1984 di Half Pint, che per l’occasione gli Stones ribattezzarono con il titolo di “Too Rude”.

Ormai tutti avviati verso i cinquant’anni di età, gli Stones salutarono gli anni Ottanta pubblicando Steel Wheels (settembre 1989), che mise fine alle voci (sorte subito dopo la pubblicazione degli album solisti di Jagger – il suo secondo, Primitive Cool, era uscito nel 1987 – e di Richards, che aveva esordito in solitaria un anno dopo con Talk Is Cheap) di un possibile scioglimento della band. Steel Wheels non portò la band alla grandezza del passato, ma fu comunque un disco più onesto dei suoi quattro predecessori, perché non cercò in tutti i modi di contestualizzare il suono degli Stones, fatta eccezione, forse, per la sola “Continental Drift”, le cui atmosfere sahariane sono veramente affascinanti. Steel Wheels certifica, insomma, che Jagger e Richards avevano finalmente raddrizzato il timone della nave, proseguendo fieri e sicuri tra brani energici e cadenzati (“Sad Sad Sad”, “Mixed Emotions”, “Rock And A Hard Place”), travolgenti tessiture funk & reggae (“Terrifying”), rhythm and blues dal groove accentuato (“Hearts For Sale”) e ballate in odor di country e tex-mex 1 (“Blinded By Love”, su cui si ascoltano anche il violino e il mandolino, entrambi suonati da Phil Beer).

Quello di Steel Wheels, però, fu l’ultimo disco degli Stones degno di attenzione. Infatti, dopo l’ennesimo documento registrato dal vivo (Flashpoint del 1991), la band ricadde in un trascurabile mestiere con Voodoo Lounge (luglio 1994), primo loro disco in cui non compare il bassista Bill Wyman, sostituito da Daryl Jones. Appesantito dall’eccessiva durata (oltre un’ora), Voodoo Lounge si affida ad uno stantio rock-blues (“Sparks Will Fly”, “I Go Wild”, “You Got Me Rocking”), con ballate più o meno convincenti a riempire gli spazi (“The Worst”, “Out Of Tears”, “Sweethearts Together”). Ma, come ormai era prassi, più gli Stones continuavano a pubblicare dischi prescindibili e più facevano incetta di pubblico pagante durante i loro tour. In quello che accompagnò la pubblicazione di Voodoo Lounge, la band battè tutti i record, incassando l’esorbitante cifra di trecentoventi milioni di dollari! Alcuni dei loro classici, registrati durante quel tour in versione acustica, finirono su Stripped (novembre 1995). La crisi, ormai irreversibile, fu confermata da Bridges To Babylon (settembre 1997), su cui compariva anche il singolo “Anybody Seen My Baby?”, una ballata dalle velleità danzerecce che è praticamente un plagio di “Constant Craving” della cantautrice canadese k.d. lang (comunque accreditata tra gli autori).

Dopo otto anni di silenzio (durante i quali, però, uscirono un paio di raccolte live: No Security del 1998 e Live Licks del 2002), gli Stones tornarono a ingrassare il loro conto in banca con l’ancora più inutile A Bigger Bang (settembre 2005), portato nelle prime posizioni delle classifiche di mezzo mondo da un martellante battage pubblicitario. Nulla di male, in tutto questo. Nulla di male anche nella volontà di ritornare in studio undici anni dopo, per dare alle stampe Blue & Lonesome (dicembre 2016), interamente affidato alla rilettura di classici blues. Del resto, per gli Stones il disco in sé ha ormai un significato molto relativo. Serve al massimo a giustificare l’inizio di un nuovo tour. E poco importa se è da Exile On Main St. (correva l’anno 1972) che non pubblicano qualcosa di realmente importante: la gente ama vivere nel passato. Pure troppo.

Note:

  1. Genere di musica latina che trae origine dalla musica folk delle popolazioni di lingua spagnola del Texas meridionale. (Wikipedia)
Discografia Consigliata

It’s Only Rock ‘n’ Roll (1974)
Some Girls (1978)
Steel Wheels (1989)

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